NEWS | Azioni edilizie e onere della prova tra inversione e principio della vicinanza.
Il mutamento di prospettiva avviato dalle Sezioni Unite in materia di riparto dell’onere della prova nell’ambito delle azioni edilizie.
Con la pronuncia n. 11748/2019 le Sezioni Unite hanno affermato il principio secondo il quale, in materia di azioni edilizie, non vige l’ordinario criterio di riparto dell’onere della prova valevole, sulla base di consolidato orientamento giurisprudenziale, in materia di adempimento e risoluzione, ma è il compratore-creditore a dover provare la presenza dell’imperfetta attuazione del risultato traslativo promesso.
In materia di ripartizione dell’onere della prova, l’art. 2697 cc afferma che “chi vuol far valere un diritto deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda”.
Il principio in esame fonda un criterio di riparto volto a far gravare sul soggetto che fa valere la pretesa, l’onere di fornire al giudice la prova del fondamento della medesima, spettando, specularmente, sulla parte convenuta, dare prova dell’inefficacia dei fatti su cui la stessa si fonda, ovvero provare fatti diversi, estintivi dei primi.
Nonostante l’apparente chiarezza e linearità operativa della regola sopra citata, non sempre è risultato semplice individuare la parte su cui grava l’onere della prova. In materia di adempimento contrattuale la giurisprudenza ha evidenziato come, a fronte di incertezze interpretative, il parametro su cui fondare la ripartizione debba avere come riferimento il principio della cd. vicinanza della prova, strettamente legato al diritto di difesa ex art. 24 Cost., in virtù del quale, il rischio della mancata prova di un fatto, spetta alla parte che si sarebbe trovata nelle migliori condizioni per dimostrare il medesimo.
Alla stregua di ciò, le Sezioni Unite, con sentenza n. 13533 del 2001, hanno affermato che, sia nel far valere l’azione di esatto adempimento, che in quella di risoluzione e risarcimento del danno (legate dalla medesima genesi relativa alla esecuzione del rapporto contrattuale, come confermato dall’art. 1453 cc) al creditore spetta solo allegare l’avvenuto inadempimento, gravando sul debitore la prova di aver adempiuto o di non averlo potuto fare per causa a sé non imputabile. Infatti, sarebbe maggiormente difficoltoso per il creditore provare di non aver ricevuto la prestazione, risolvendosi ciò nella dimostrazione di un fatto negativo. Più agevole, altresì, risulta per il debitore, provare il fatto positivo dell’avvenuto adempimento, oppure di non aver potuto adempiere per un fatto esterno imprevedibile (cd. factum principis) o, ancora, di aver adoperato la diligenza necessaria per portare a termine l’impegno contrattuale.
In materia di azioni edilizie, indirizzate alla richiesta di risoluzione del contratto (azione redibitoria) o di riduzione del prezzo (azione estimatoria) sono emerse, nel panorama giurisprudenziale, due opinioni contrastanti. Parte della giurisprudenza affermava che, anche in questo ambito, dovessero applicarsi le ordinarie regole di riparto dell’onere della prova. Di conseguenza, trattandosi di un’obbligazione di risultato, sarebbe spettato al compratore- creditore allegare la sussistenza del vizio (o l’evizione da parte di terzi), gravando sul venditore-debitore la prova di aver consegnato una cosa conforme alle caratteristiche tipologiche della categoria cui quel bene appartiene.
Le Sezioni Unite, con sentenza n. 11748/2019 hanno aderito all’orientamento contrario, volto a sovvertire il criterio valevole in generale in materia di adempimento e risoluzione contrattuale, spettando al compratore la prova di non aver ricevuto un bene conforme a quanto promesso e alle caratteristiche tipologiche ordinarie. Ciò si spiegherebbe per due ordini di ragioni.
In primo luogo, l’obbligo di garanzia per i vizi, pur rientrando nel genus obbligazione in senso lato, non avrebbe le caratteristiche proprie della stessa, ma si configurerebbe più come rapporto di soggezione-diritto potestativo. Ciò in quanto, il venditore risulta gravato, in questi casi, di un impegno che va oltre le sue potenzialità, dovendo consegnare un bene immune da vizi, indipendentemente dal fatto che la presenza degli stessi dipenda da causa a lui imputabile. La garanzia in esame, infatti, non rientra nella categoria dei generali obblighi di consegna, previsti dall’art. 1476 cc. Quest’ultima norma impone al debitore di consegnare la cosa nello stato in cui si trovava al momento in cui il bene è stato venduto e si è prodotto l’effetto traslativo, indipendentemente dal fatto che vi fossero o meno vizi, mentre la garanzia prevista dall’art. 1490 cc impone di consegnare un bene idoneo all’utilizzo cui è destinato e privo di elementi che ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore, indipendentemente dal fatto che tali vizi siano imputabili ad un comportamento negligente del debitore.
Per questa ragione, la presenza di vizi del bene, non può essere considerata alla stregua di un inesatto adempimento e non può farsi ricadere sul venditore la prova della conformità del bene. Inoltre, a tale conclusione si sarebbe potuti addivenire anche sulla scorta del summenzionato principio di vicinanza della prova. Infatti, avendo il compratore la diretta disponibilità della res compravenduta, sarà più semplice per lui dimostrare la sussistenza di vizi e l’inidoneità del bene a conseguire le sue potenziali utilità.
Per queste ragioni, la Suprema Corte ha ritenuto spettante sul compratore la prova della sussistenza dei vizi, potendo il debitore eccepire la conformità del bene rispetto alla categoria tipologica di cui lo stesso fa parte.
Di Daniela D’Adamo.