NEWS | #CoronaVirus. Cosa accade se vengono violate le disposizioni delle disposizioni precauzionali del DPCM?
I recenti, quanto necessari, interventi urgenti in materia di emergenza sanitaria derivante dal COVID-19, richiedono di comprendere a fondo quali possano essere le conseguenze sanzionatorie derivanti dalla violazione dei medesimi.
L’eccezionalità e la gravità della capacità diffusiva del coronavirus hanno indotto all’emanazione, in particolare, di diversi Decreti del Presidente del Consiglio. Le disposizioni più rilevanti in questo contesto sono contenute nel decreto del 9 marzo, per la portata e l’incidenza delle stesse sulla quotidianità e sulle abitudini di vita relative alla popolazione sull’intero territorio nazionale.
In particolare, le disposizioni prevedono l’estensione delle misure preventive dapprima predisposte per i soli capoluoghi maggiormente colpiti dall’epidemia, all’intero territorio nazionale, statuendo che la legittimità degli spostamenti sarà limitata a circostanze di stretta necessità (esigenze di salute o di stretto approvvigionamento) o per consentire il rientro presso la propria residenza, dimora o domicilio.
Ulteriore disposizione rilevante (tra le altre) in materia, è quella prevista al comma 2 del medesimo testo di legge, che prevede un generale divieto di assembramento di persone in luoghi pubblici o aperti al pubblico, in assenza, in questo caso, di qualsiasi tipo di eccezione.
Abbiamo, inoltre, constatato come siano stati forniti modelli di “autocertificazione”, volti a rendere giustificazione circa gli eventuali spostamenti, per far sì che, in caso di eventuale richiesta da parte delle forze dell’ordine, le stesse possano constatare che i medesimi siano motivati da una delle tassative ragioni indicate nel decreto.
Occorre, a questo punto chiedersi, quali possano essere le conseguenze penali derivanti dalla violazione delle disposizioni in esame. In particolare, risulta necessario differenziare più piani: da un lato viene in gioco il disvalore del comportamento realizzato in violazione delle disposizioni del decreto, dall’altro può individuarsi rilevanza penale nel falso realizzato al cospetto dei pubblici ufficiali, e, infine, possono venire in gioco fattispecie lesive della vita e dell’incolumità individuale, o, addirittura dell’incolumità pubblica, ove la condotta violativa delle norme, cagioni eventi lesivi o contribuisca, concretamente, alla diffusione del virus.
- La violazione delle disposizioni del decreto
La fattispecie di reato che viene in gioco a fronte della materiale violazione delle disposizioni del decreto, ad esempio realizzando spostamenti al di fuori delle tassative e stringenti ipotesi previste dalle norme, è quella di cui all’art. 650 cp. Si tratta di una contravvenzione costruita come norma penale in bianco, con un richiamo, circa il contenuto precettivo concreto, ai provvedimenti emanati dall’autorità. Viene punito, infatti, alternativamente con la pena dell’arresto o dell’ammenda, chiunque violi le disposizioni legalmente date per ragioni di giustizia, sicurezza, ordine pubblico ed igiene.
A ben vedere, perché possano dirsi integrati gli elementi costitutivi della fattispecie in esame, è necessario che l’ordine dell’autorità sia dato legalmente, ove il concetto in esame si riferisce sia alla legalità di tipo contenutistico-sostanziale, che formale (l’autorità deve essere legittimata ad emanare provvedimenti del tipo in esame). In caso contrario, il giudice penale, più che disapplicare l’ordine a monte, ben potrà assolvere l’imputato in virtù dell’insussistenza degli elementi costitutivi del reato.
Tuttavia, potrebbe ritenersi che le prescrizioni fornite dal DPCM siano carenti di adeguata base formale in quanto volte a comprimere diritti fondamentali quali quelli relativi alla libertà di circolazione e di riunione, avvalorati da apposite riserve di legge (dai più ritenute assolute) di natura rinforzata, di cui agli artt. 16 e 17 Cost.
Ebbene è altresì vero che i provvedimenti in analisi poggiano in effetti su una base legislativa, necessaria affinchè la riserva di legge risulti essere rispettata, ossia quella del decreto legge n. 6 del 23 febbraio 2020, che consentirebbe quel necessario “passaggio” dal Parlamento, funzionale ad adottare misure restrittive in materia di libertà personali coperte da apposita riserva.
Tuttavia, a ben vedere, non si può non rilevare come l’art. 1 del decreto in esame realizzi sostanzialmente una delega in bianco, attribuendo all’organo esecutivo il potere di emanare qualsivoglia forma di misura necessaria per far fronte all’emergenza, individuando, quali unici parametri cui ancorare la discrezionalità dell’esecutivo, la necessaria proporzionalità ed adeguatezza delle misure, criteri che richiedono un bilanciamento tra la tutela delle libertà individuali da un lato e della salute pubblica dall’altro, ma che non consentono di arginare il margine di discrezionalità nella scelta delle misure in esame.
Per quanto qui interessa, è sufficiente prendere atto che, ove realmente si ritenesse il decreto legge contrario al principio di legalità, la soluzione non potrebbe certo essere quella dell’assoluzione per insussistenza degli elementi costitutivi dal reato di cui al 650 c.p., né, tantomento, quella della disapplicazione del provvedimento fondato sul decreto legge. E ciò in quanto, in primis, è evidente come non si abbia a che fare con un rapporto di presupposizione tra un regolamento ed un atto amministrativo concreto, con conseguente attribuzione del potere disapplicativo al GO, poiché lo strumento adottato per attuare le disposizioni del DL è stato quello del DPCM, costituente un atto normativo. Inoltre, l’illegittimità del DPCM non è autonoma ed originaria, ma discende dalla natura, eventualmente, incostituzionale, dell’atto normativo presupposto.
L’unica soluzione contemplabile sarebbe allora, qualora si aderisse realmente a tale impostazione, quella dell’incidente di costituzionalità in relazione al decreto legge a monte.
2. Le condotte di falso
Risulta utile interrogarsi sulla eventuale sussistenza di conseguenze penali rispetto alla condotta di falso tenuta a fronte della autocertificazione non veritiera fornita alle autorità di pubblica sicurezza.
Ebbene la risposta al quesito non può che passare dalla natura dell’autodichiarazione in esame.
La fattispecie che può venire in gioco è quella di cui all’art. 483 cp, recante ipotesi di falso ideologico commesso dal privato mediante dichiarazioni fornite ad un pubblico ufficiale confluenti in un atto pubblico. Risulta, dunque, evidente, come il discrimen tra penalmente lecito e non, si sostanzia nell’attitudine dell’autodichiarazione a confluire in un atto pubblico o in una procedura avente rilevanza pubblicistica. A ben vedere, la giurisprudenza ha infatti più volte affermato che la portata applicativa della fattispecie di cui all’art. 483 cp non può che riferirsi ad ipotesi di autocertificazioni in cui il privato ha l’obbligo di dire la verità in vista dell’interesse pubblicistico retrostante rispetto alle sue dichiarazioni, che vengono fatte proprie, nella loro integrità, dal pubblico ufficiale. Ed è proprio questa la situazione che sembra prospettarsi nei casi in esame, considerando, in particolare, come la firma apposta dagli agenti sull’autocertificazione sembra attribuire valenza pubblicistica alla medesima nel momento in cui viene presentata e fatta propria dai pubblici ufficiali. Inoltre, qualora realmente si ammettesse il rilievo pubblicistico dell’atto in esame, ci si potrebbe interrogare sulla ricorrenza della fattispecie di cui all’art. 479 cp, il quale sanziona la falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale. Del reato proprio in esame risponderebbe, a ben vedere il privato extraneus, in virtù dell’inganno recato nei confronti del pubblico ufficiale ex artt. 48 e 479 cp.
D’altro canto, la giurisprudenza ha sottolineato in più occasioni come, nei casi in esame, la fattispecie di cui all’art. 483 cp e quella di cui 479 e 48 cp possano dar luogo ad un concorso formale di reati e non ad un concorso apparente di norme.
A ben vedere, in realtà, la condotta del privato che renda dichiarazioni false in questo ambito ben potrebbe rientrare in un’altra fattispecie di reato contro la pubblica fede, quella di cui all’art. 495 cp. La giurisprudenza ha, in più occasioni, sottolineato, come la differenza tra il reato di cui al 483 cp e il 495 cp, non riguardi la natura pubblicistica dell’atto (in entrambi i casi le false dichiarazioni sono funzionali a confluire in un atto pubblico o in un comportamento avente rilevanza nell’esercizio della pubblica funzione), ma l’oggetto materiale, ossia il contenuto delle dichiarazioni non veritiere. Nel caso dell’art. 483 cp si ha a che fare con veri e propri fatti esterni alla sfera soggettiva, mentre in quello di cui al 495 le false dichiarazioni attengono allo status, all’identità o alle condizioni personali dell’agente o di terzi. Ebbene, dunque, l’integrazione dell’una o dell’altra norma dipenderà, evidentemente, dalla natura che venga attribuita alle dichiarazioni mendaci inerenti le giustificazioni degli spostamenti personali.
Qualora, infine, si ritenesse che le autodichiarazioni abbiano natura eminentemente privatistica e che esse permangano tali anche a fronte della vidimazione del pubblico ufficiale, non potrà che essere integrato in reato di cui all’art. 496 cp, avente valenza residuale, ed essendo destinato ad applicarsi nei casi in cui le dichiarazioni mendaci fornite al soggetto nell’esercizio delle sue funzioni pubblicistiche, non sia destinato a confluire in un atto pubblico.
3. La rilevanza penale delle condotte lesive di beni giuridici inerenti la persona
È necessario, infine, comprendere quale possa essere il rilievo penale ascrivibile alle condotte lesive delle disposizioni dei decreti, che comportino la diffusione del virus o concreti eventi lesivi nei confronti di altri soggetti.
Ebbene, l’eventuale diffusione del virus non può che integrare un reato contro la pubblica incolumità, bene giuridico per la cui tutela sono predisposte fattispecie eminentemente di pericolo con anticipazione di tutela legata alla particolare pregnanza del bene stesso.
Viene in gioco, allora, il reato di epidemia, che si realizza ove chiunque cagioni un’epidemia mediante una condotta a forma vincolata consistente nella diffusione di germi patogeni.
Ebbene, affinchè la fattispecie venga integrata, è necessaria la prova della sussistenza del nesso causale tra la condotta e l’evento di pericolo, ossia la concreta diffusione del virus con annesso contagio di un numero indeterminato di persone, non rilevando la prova dell’effettivo numero di soggetti morti o lesi a seguito del contagio. Risulta, quindi, fondamentale che la diffusione abbia dato origine ad un effetto espansivo tale da determinare una concreta messa in pericolo per il bene giuridico della pubblica incolumità. Inoltre, l’elemento soggettivo del reato in esame potrà di certo essere quello colposo, sulla base dell’art. 452, ma anche, eventualmente, il dolo eventuale, ove venga provato che il soggetto abbia accettato il rischio della diffusione del virus e della messa in pericolo del bene giuridico, al fine di realizzare lo scopo prefissatosi con la violazione delle disposizioni del decreto, rispondendo, in questo caso, della fattispecie di cui all’art. 438 cp.
Infine, la condotta di un soggetto infetto che realizzi concretamente un contagio, potrà determinare l’integrazione delle fattispecie di lesioni e di omicidio (dolosi o colposi a seconda dell’elemento soggettivo concretamente rilevante nelle fattispecie considerate), ove l’agente contagi uno o più soggetti determinati e ne cagioni dunque le lesioni (da ritenersi in re ipsa nel contagio) o la morte. L’eventuale atteggiamento soggettivo colposo dovrà, in questo caso, essere affiancato dalla violazione di concrete norme cautelari che, oltre a quelle generiche di prudenza e diligenza, potranno rinvenirsi nelle disposizioni specifiche del decreto, avendo le stesse natura precauzionale, dando origine, dunque, ad ipotesi di colpa specifica.
Di Daniela D’adamo.